Nikita. La sposa di Kill Bill. La sposa in nero di Truffaut. Trinity di Matrix. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. È la galleria delle donne combattenti che ha fatto la storia del cinema. Quasi mai avevamo visto però una bambina combattente, a parte la recente Chloe Moretz di Kick-Ass (ma la violenza lì era stemperata dalla cornice pop). Hanna (una bravissima Saoirse Ronan) ha sedici anni ed è stata cresciuta dal padre Erik (Eric Bana), ex agente CIA, come una perfetta macchina da guerra, forte, scaltra e insensibile, in attesa di una probabile vendetta da compiere. Qualcosa che attendiamo, e che crea un’atmosfera di sospensione nella bellissima prima parte del film, tra i ghiacci della Finlandia.
È un film algido, glaciale, e non solo per gli ambienti dove inizia, Hanna. Sono algidi i ghiacci dove la protagonista si esercita, sono freddi gli interni asettici, vetro e metallo, dell’ufficio della CIA dove si muove l’agente Marissa Wiegler (Cate Blanchett), sono algidi i volti di porcellana di Saoirse Ronan e Cate Blanchett. Il tutto è accentuato dall’eccezionale colonna sonora techno dei Chemical Brothers, cuore e scheletro metallici del film. Joe Wright, finalmente lontano dai film in costume come Orgoglio e pregiudizio ed Espiazione (lui che dice di amare David Lynch), raffredda volutamente il suo film, donandogli calore a sprazzi, poco a poco. Perché l’andamento di Hannah segue quello della sua protagonista: creata per essere fredda e insensibile, si scopre più calda, più tenera, man mano che conosce la vita.
Hanna è infatti allo stesso tempo una spy story, un thriller e un romanzo di formazione. Hannah, a sedici anni, esce per la prima volta dal bozzolo dove l’aveva chiusa il padre, e scopre pian piano il mondo e la vita. È vergine, pura, non ha ancora visto quasi niente. Così è naturale il suo stupore, carico di paura, davanti all’energia elettrica, la sua estraneità ai discorsi vacui del mondo di oggi. Hanna ci emoziona emozionandosi di fronte alla musica, o scoprendo per la prima volta cosa vuol dire avere un’amica (e la regia di Wright cambia registro, con la macchina da presa addosso ai volti delle due ragazze nella sequenza delle confessioni tra le due).
Hanna è un film che spiazza proprio per questa alternanza di toni e registri, è allo stesso tempo crudele e tenero, come può essere la storia di una bambina strappata alla sua infanzia e adolescenza, alla sua vita. Come nella realtà, in altri modi, purtroppo accade spesso. E come in fondo accade ai bambini protagonisti delle favole (da qui il riferimento ai Fratelli Grimm), alle prese con orchi e prove difficili da superare. Hanna potrebbe essere una favola postmoderna. È un film spiazzante anche per come si snoda la storia, che devia spesso dalla strada che ci si aspetta. Anche se spesso sembra andare troppo veloce: non convincono alcuni movimenti dei personaggi (dalla Finlandia si passa al Marocco, alla Spagna e a Berlino come se ci fosse il teletrasporto) e a tratti alcuni aspetti della loro psicologia, non spiegati completamente, soprattutto man mano che si arriva alla fine. Hanna è un film difficile da definire e da incasellare (forse per questo esce ad agosto?), ma molto coraggioso. Si chiude come era iniziato, con i cigni e la casetta innevata del luna park che richiamano le scene dell’inizio del film. E la stessa battuta che Hanna la cacciatrice aveva pronunciato dopo aver ferito un cervo. “Ti ho mancato il cuore”.
Da vedere perché: è allo stesso tempo crudele e tenero, come può essere la storia di una bambina strappata alla sua infanzia e adolescenza, alla sua vita. Come accade ai bambini protagonisti delle favole. Hanna potrebbe essere una favola postmoderna