Posts Tagged ‘anteprima

23
Mar
12

GHOST RIDER: SPIRIT OF VENGEANCE

Da oggi nelle sale Ghost Rider: Spirit of Vengeance, il nuovo capitolo della saga diretto da Mark Neveldine e Brian Taylor.

Nicolas Cage ritorna a calarsi nei panni di Johnny Blaze, ancora alle prese con la maledizione del cacciatore di taglie del diavolo…

Ma dopo l’incontro con il leader di un gruppo di monaci ribelli (Idris Elba) sembra disposto a tutto pur di salvare un ragazzino dalle grinfie del diavolo – e liberarsi una volta per tutte dalla maledizione che lo perseguita.

Guarda il backstage.

01
Apr
11

Mia moglie per finta. L’eterno Adam Sandler colpisce ancora

Voto: 6 (su 10)

C’è una puntata di South Park in cui Eric Cartman viene assunto da una produzione cinematografica che gli chiede di sfornare soggetti per film: il ragazzino, esaltato, comincia a buttare lì centinaia di soggetti in cui Adam Sandler fa questo, Adam Sandler fa quest’altro. All’infinito. L’iperbole non è poi così lontana dalla realtà. Sandler al cinema fa sempre, o quasi, lo stesso ruolo. È il bruttino ma simpatico, ricco di fantasia, humour, trovate, un po’ paravento ma con in fondo un cuore grande, che, dopo mille stratagemmi, riesce a conquistare la bella di turno. Come nei soggetti di Cartman, Sandler è l’attore del “what if”, del “cosa accadrebbe se”. Cosa accadrebbe se incontrassi di una donna che perde la memoria ogni giorno (50 volte il primo bacio)? Cosa accadrebbe se avessi un telecomando per mandare avanti veloce la vita come un dvd (Cambia la tua vita con un click)? Cosa accadrebbe se un uomo indossa la fede, fingendosi sposato, per rimorchiare più facilmente le ragazze, raccontando la storia del marito infelice? È questo lo spunto di Mia moglie per finta, didascalico titolo italiano di Just Go With It. Danny, così si chiama Sandler in questo film, usa questo trucco da anni. Il giorno che incontra la donna della sua vita si toglie la fede, ma lei nota comunque il segno dell’anello sull’abbronzatura e trova la fede nella tasca dei jeans. Così vuole incontrare la moglie di Danny. Che non esiste. Allora Danny chiede alla sua assistente Katherine di impersonare sua moglie per finta.

Katherine è Jennifer Aniston, anche lei, come Sandler, destinata a ripetere in eterno lo stesso personaggio, la Rachel di Friends, la serie tv dalla quale sembra non essere mai uscita, nonostante sia l’unica tra gli attori del serial a frequentare con successo il cinema. Lei è sempre la nevrotica un po’ stressata, anticonformista, non bellissima ma molto attraente grazie al suo fisico e al suo carattere. Anche lei, in fondo, con un cuore d’oro. Qui, ovviamente, dovendo recitare nel ruolo dell’amica, è volutamente dimessa all’inizio, per poi prendere quota in un secondo momento. Dalla combinazione di questi due attori, in quell’eterno gioco delle coppie che è la Rom Com americana, potete capire cosa sia Mia moglie per finta, uno di quei film simile a tanti altri.

A dirigere c’è Dennis Dugan, regista di tanti film di Sandler, anche se forse non i migliori. Sempre indeciso tra il becero e il tenero, esagera nel primo senso nella prima parte, (il protagonista è un chirurgo plastico), tra nasoni posticci, volti di plastica, interventi agli occhi e al seno non riusciti. E riprende quota nella seconda, quando svolta sul tenero, complici i bimbi di Katherine (due attori bravissimi). È scontato, sì, Mia moglie per finta, ma a tratti funziona, come nello scambio di battute da cinema della guerra dei sessi anni Quaranta tra Danny e Katherine che fingono di odiarsi. Se il cameo di Nicole Kidman in un film sulla chirurgia estetica è sì autoironico, ma anche triste, aiuta il film una colonna sonora con ben dieci pezzi di Sting e i Police. Il messaggio, edificante, è che contano più l’affinità e le cose in comune che l’avvenenza e l’attrazione di un momento. Se Jennifer Aniston è più in palla che nelle sue ultime prove, Sandler porta a casa il risultato facendo quello che sa fare meglio, facendo eternamente Adam Sandler come nelle idee di Cartman. E se film come Funny People ci avevano fatto intuire che è qualcosa di più di questo, invochiamo, nel continuo gioco delle coppie, dopo The Wedding Singer e 50 volte il primo bacio, un terzo film con Drew Barrymore, l’attrice con cui forse finora ha funzionato meglio.

Da vedere perché: Adam Sandler, basta la parola

 

31
Mar
11

The Ward – Il reparto. Bentornato, Carpenter!

Voto: 7 (su 10)

Un ospedale, la notte, i corridoi lugubri e vuoti, tuoni e fulmini. E un assassinio. Comincia così The Ward – Il reparto. Un classico dell’horror. E infatti è un grande classico l’autore che porta questo film sullo schermo, John Carpenter, uno dei massimi esponenti del genere, che torna dopo quasi dieci anni di assenza, con un prodotto a basso budget, ispirato alla modalità produttiva di Masters Of Horror, serie tv americana a cui il maestro ha preso parte. Si tratta dunque di un film minore nel curriculum di Carpenter. Ma avercene di film minori così.

Kristen (Amber Heard) ha appena dato fuoco a una casa. Si ritrova, coperta di tagli e di lividi, in un ospedale psichiatrico. Non ricorda niente. Ma capisce ben presto che non sarà facile uscire da quel posto. E che in quel posto non è per niente al sicuro: misteriosamente le ragazze nel reparto (tutte bellissime, vabbè…) cominciano a morire ad una ad una.

C’è molto del vecchio Carpenter, in The Ward. E uno dei giochi per i tanti appassionati del maestro dell’horror sarà proprio andare a cogliere tutti i riferimenti alla sua opera. L’ospedale psichiatrico è un luogo circoscritto da cui è difficile uscire, come l’isola di The Fog, o la base tra i ghiacci de La cosa. Un luogo perfetto dove creare tensione e pericolo, come ci ha ricordato anche Scorsese con Shutter Island. Le belle ragazze in pericolo, braccate da un mostro, ci rimandano invece immediatamente a Halloween, il film più copiato, riprodotto e rifatto di Carpenter. E anche i movimenti di macchina, ricchi di steadycam, sono quelli.

The Ward è un film che funziona su più livelli, che gioca tra horror puro (le apparizioni del mostro assassino), thriller di suspence hitchcockiana (i tentativi di fuga con la paura di essere scoperte, che creano un gioco alla Marnie), e l’horror psicologico, che in un film in manicomio ci sta sempre e permette di arrivare a qualsiasi soluzione. Che infatti arriva inaspettata, e rovescia tutte le carte in tavola. Siamo dalle parti di Psycho e Identity, ma non vogliamo dirvi di più. Solo che il vero pericolo, al solito, è dentro di noi. Carpenter gioca con la nostra percezione e con quella della protagonista. Ossessivo, labirintico, claustrofobico, The Ward è un piccolo film ma funziona alla grande. Non resta che dire: bentornato, Carpenter!

Da vedere perché: è un film che funziona su più livelli, che gioca tra horror puro, thriller di suspence hitchcockiana e l’horror psicologico. Con il tocco di uno dei più grandi dell’horror, John Carpenter

 

17
Mar
11

Gnomeo e Giulietta. Liberate i nani da giardino

Voto: 6 (su 10)

Vi siete mai chiesti che senso abbiano i fantomatici nani da giardino che appaiono qua e là nei giardini di tutto il mondo? Simbolo del cattivo gusto, qualche anno fa sono stati oggetto di interesse anche di un fantomatico comitato di liberazione dei nani da giardino, che li toglieva dai giardini per lasciarli liberi di andare per il mondo.

Un po’ come faceva la Amelie Poulain de Il favoloso mondo di Amelie, mandando un nano in giro per il mondo con tanto di cartoline spedite. In Gnomeo e Giulietta, film d’animazione in uscita il 16 marzo, i nani sono protagonisti assoluti: quando noi non li vediamo si muovono, si amano, si odiano.

E sono i protagonisti della storia di amore e odio più famosa del mondo: quella di Romeo e Giulietta, di William Shakespeare. I Capuleti e i Montecchi sono i nani di due giardini contigui, che si odiano come i rispettivi padroni di casa. Gnomeo e Giulietta, lui blu, lei rossa, si incontrano, e nasce l’amore. Che sarà contrastato.

L’idea è a suo modo geniale. E che fa la distribuzione italiana? Per accentuare il contrasto tra i due clan, trasforma i due gruppi in settentrionali e meridionali, doppiando i personaggi con accenti del nord e del sud, che vanno dal veneto al lombardo in un caso, dal napoletano al siciliano nell’altro. Qualcosa di simile era accaduto con Shaolin Soccer, film orientale di qualche anno fa. È un chiaro esempio di quando non ci si fida del prodotto. In questo caso, è anche un ammiccamento ai recenti successi della commedia nostrana, che giocano sugli stereotipi e i contrasti tra nord e sud, come Benvenuti al Sud e Che bella giornata di Checco Zalone. Solo che una cosa è costruire un film su questi stereotipi, giocandoci, superandoli e smentendoli, una cosa è fare una fusione a freddo su una vicenda che parla di tutt’altro.

È un peccato perché gli gnomi sono personaggi davvero divertenti e sono disegnati bene, ovviamente al computer: piace come sono state create le superfici, e come i personaggi digitali abbiano una loro pesantezza, che è quella di chi è fatto di coccio. Anche i suoni sono curati, e quando si toccano sono rumorosi. Come al solito non manca il gioco di citazioni che va da Gioventù bruciata a Matrix fino a Salvate il soldato Ryan. Anche se molte trovate, è il caso di dirlo, sono prese da Toy Story, che è il modello di un film come questo. I dialetti fanno ridere, certo, ma sono risate che vanno così come vengono, e nascondono un po’ quella che è l’anima del film. I nani da giardino andrebbero liberati sì, ma dai loro doppiatori. Solo allora potremmo capire l’anima di questo film.   

Da vedere perché: i nani sono simpatici, e la storia di Romeo e Giulietta è sempre bella. Ma sono doppiati con vari accenti dialettali italiani, ed è una scelta che penalizza il film

 

16
Mar
11

Dylan Dog. Il fumetto cult diventa un film. Però…

Voto: 4,5 (su 10)

Facciamo subito un po’ d’ordine. Un film su Dylan Dog non c’era ancora mai stato. Dylan Dog, di Kevin Munroe, in uscita in Italia in anteprima mondiale il 16 marzo, è la prima volta dell’investigatore dell’incubo creato da Tiziano Sclavi sul grande schermo. C’era stato un altro film, nel 1994, DellaMorte DellAmore, che era stato tratto da un romanzo di Sclavi, con protagonista un becchino, su cui era stato modellato il personaggio di Dylan Dog. In quel film, diretto da Michele Soavi, il protagonista era Rupert Everett, l’attore a cui Dylan Dog è dichiaratamente ispirato. E con cui ogni attore chiamato a interpretarlo deve necessariamente fare i conti. Così ora che arriva il primo Dylan Dog ufficiale sul grande schermo (non approvato da Sclavi e dall’editore Bonelli), il confronto è sì con il fumetto, ma anche con il film di Soavi.

Qui la produzione è americana, e gli americani non conoscono Dylan Dog. Allora perché non aggiornarlo agli standard americani? È questo che avranno pensato Munroe e i suoi autori, ma per il pubblico italiano è un altro discorso. Cominciamo col dire che accanto a Dylan Dog non c’è il fidato e iconico assistente Groucho. C’era tutta una serie di problemi di diritti d’autore, visto che l’aiutante di Dylan è la copia di Groucho Marx. Però… Non c’è la famosa automobile di Dylan. O meglio, è un po’ cambiata: carrozzeria nera con interni bianchi invece che bianca con interni neri. E qui c’era il rischio, secondo il regista, che ricordasse Herbie il maggiolino tutto matto. Vabbè, a parte che sarebbe venuto in mente solo a lui. Però… Da Londra l’azione è trasferita a New Orleans: città diabolica e misteriosa, certo. Però…  L’attore protagonista è Brandon Routh, già Superman in Superman Returns di Bryan Singer. Però… non è Rupert Everett, e lo vediamo in camicetta gialla, anche se solo per le prime scene. Se riuscite a superare tutti questi però, potreste anche vedervi Dylan Dog in pace. Però… è chiaro che non si tratta di un film da grandi fan di Dylan Dog.

Si tratta, lo dicevamo di un film per americani. La ricetta la dice lo stesso regista: due parti di Underworld, una parte di Zombieland, e una spruzzatina di Chinatown. Il regista pensa anche a Ghostbusters e Indiana Jones come commistione di generi, horror, thriller, action, commedia. Magari. Dylan Dog strizza sì l’occhio all’horror per adolescenti americano, ma i modelli sono più quelli televisivi, come Buffy, Angel e Streghe, Twilight se vogliamo avvicinarsi al cinema. Combattimenti, trasformazioni, salti. Munroe ha a disposizione l’immaginario enorme del cinema horror, dai licantropi ai morti viventi, ma li usa in maniera grossolana o usando i registri della farsa, in particolare per tutta la vicenda legata agli zombie. Se i morti viventi di Romero lo trovassero in giro, credo che farebbe una brutta fine.

Il confronto con DellaMorte DellAmore, allora, ci sta eccome. E Michele Soavi, non certo un regista dal tocco raffinato, aveva dimostrato con il suo film, per quanto ingenuo, di cogliere meglio le atmosfere di Tiziano Sclavi. Stile televisivo, registri narrativi mal integrati, attori scadenti: pur macabro, Dylan Dog non è un horror, perché non fa paura. Pur con la voce narrante, non è un noir, perché i personaggi non hanno la dolente profondità. Brandon Routh, poi, è un attore belloccio ma poco espressivo, e dopo aver demolito Superman, ora lo fa con un altro mito a strisce, Dylan Dog. Il film è un prodotto da multiplex da venerdì sera, under 20, ma sarebbe più adatto ad un’uscita straight to video. Abbiamo nostalgia di Soavi, ed è tutto dire.

Da non vedere perché: non si tratta di un film da grandi fan di Dylan Dog, troppe libertà rispetto al fumetto originale. È un action movie che ammicca all’horror per teenager americani, alla Underworld, ma è girato come una puntata di Buffy l’ammazzavampiri

 

15
Mar
11

Beyond. Il vero volto di Noomi Rapace

Voto: 5,5 (su 10)

La cosa che ci interessava di più, andando a vedere Beyond, piccolo film svedese portato in Italia dalla Sacher di Nanni Moretti, era vedere all’opera Noomi Rapace in un’altra occasione che non fossero i film tratti dalla trilogia Millennium di Stieg Larsson (Uomini che odiano le donne e i suoi due sequel). Vedere cioè qual era il suo vero volto, acqua e sapone, come si suol dire, depurato dagli orpelli dell’indelebile hacker punk Lisbeth Salander, che ne caratterizzavano l’immagine. La cosa che è chiara vedendo Beyond è che Noomi Rapace è davvero brava: lo sapevamo già, ma si sa che i ruoli borderline come quello di Lisbeth aiutano le interpretazioni degli attori. Mentre è più difficile lavorare sui mezzi toni.

È un film di questo tipo, Beyond, diretto da Pernilla August, attrice bergmaniana (esordì in Fanny e Alexander). E ha sapori bergmaniani, e ibseniani. Noomi Rapace è Lena, felicemente sposata (il marito è interpretato da Ola Rapace, vero marito di Noomi) con due bambine: una mattina riceve una telefonata dalla madre che è in fin di vita. Lena non la vede da anni, e non vorrebbe rivederla: in quel modo si aprirebbe un vaso di Pandora impossibile da richiudere, e riaffiorerebbero i ricordi della sua infanzia difficile, fatta di genitori alcolizzati e violenti. Quell’infanzia che Lena ha rimosso e occultato con fatica. Ma ora è il momento di affrontarlo e superarlo.

Con un personaggio doloroso, ma non così estremo come Lisbeth, Noomi Rapace si conferma bravissima, un volto spigoloso e androgino, ma capace di una grande dolcezza. Un volto che avrà un grande futuro (la rivedremo nel sequel di Sherlock Holmes di Guy Ritchie e nel prossimo progetto di Ridley Scott). Rapace a parte, Beyond è un film piuttosto classico, che alterna  presente e passato, e rivive attraverso i flashback i ricordi di Lena bambina. Beyond è un film sincero, semplice, minimalista, a volte un po’ noioso e ripetitivo nel reiterare le stesse situazioni di violenza  e degrado senza un vero sviluppo narrativo, se non quello del finale, in cui Lena Noonriesce a venire a patti con il suo passato. Beyond è una storia dura, intensa, ma anche già vista, in cui la regia non riesce a trovare una sua chiave di lettura, una sua visione, e si affida solo alla forza della storia e dei suoi attori. Anche la metafora dell’acqua come pulizia e isolamento da tutto è un po’ già vista. Non è affatto un volto già visto quello di Noomi Rapace:  il cinema ha una nuova stella. Una donna completamente diversa dall’estetica che Hollywood, e, perdonateci il parallelo, le tv e le cronache italiane ci mostrano come modello dominante.

Da non vedere perché: è una storia, dura, intensa, ma anche già vista, in cui la regia non riesce a trovare una sua chiave di lettura, una sua visione, e si affida solo alla forza della storia e dei suoi attori

 












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