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12
Mag
09

Soffocare. Una carezza da un pugno…

Voto: 5 (su 10)

locandinaLa mente malata di Chuck Palahniuk torna finalmente sul grande schermo. Dopo Fight Club, il suo romanzo d’esordio reso mirabilmente in immagini da David Fincher, ora è il turno di Soffocare (Choke), forse il suo libro più famoso dopo il primo. Si tratta, come tutte quelle nate dalla penna dello scrittore di origine ucraina, di una storia a tinte forti: un uomo che da bambino è stato abbandonato e ripreso più volte da una madre mitomane e sciroccata cresce con evidenti problemi di ipocondria e dipendenza dal sesso. Lavora in un parco dove si riproducono scene di vita dei primi coloni americani, e finge periodicamente di soffocare a causa di un boccone mentre cena al ristorante: così chi lo salva finisce per adottarlo e mandargli soldi per la vita. Così può pagare la retta dell’ospedale dove è ricoverata la madre, affetta da una qualche forma di demenza.

Come si vede, la materia per un gran film non mancherebbe, tanto più che Palahniuk scrive evocando immagini che già di per sé sono cinema (si pensi al primo capitolo del libro, qui trasferito in sottofinale). E le situazioni che si susseguono nelle sue pagine basterebbero da sole a farne una grande sceneggiatura. Ma purtroppo qui siamo dalla parte opposta di Fight Club, con il quale c’è in comune solo la voce off dell’Io narrante, caratteristica di tutti i libri di Palahniuk. Quello che, dalle prime immagini, non convince, è il tono del film, troppo leggero ed edulcorato. Non c’è la rabbia, il sarcasmo, lo humour nero tipici dello scrittore, che David Fincher in Fight Club aveva saputo restituire nel modo migliore. Soffocare, nella sua versione filmica, vira troppo verso una commedia qualunque dove tutto scorre apparentemente senza lasciare traccia. Visto così, Soffocare diventa una serie di situazioni strampalate che strappano qualche sorriso, ma, mentre la penna di Palahniuk rendeva tutto vivido e realistico, qui la scelta è di appiattire tutto, togliere profondità. Ogni scena riesce nell’impresa quasi impossibile di togliere enfasi a quello che accade. Nel libro si parla di dipendenze, depressioni, ipocondrie, traumi infantili. Qui sembrano tutte barzellette. Per non parlare del lieto fine posticcio appiccicato senza alcun senso.

Tutto, insomma, è messo in scena in maniera sciatta e piatta, con una regia e una fotografia paratelevisive, e parliamo della tv della peggior specie (come se stessimo vedendo una serie televisiva di trent’anni fa). E non c’è un’idea di regia che sia una. Anzi, una ce ne sarebbe – i brevi flash con cui il protagonista si immagina nuda ogni donna che incontra – ma è piuttosto vecchiotta. Per il resto l’esordiente Clark Gregg si limita a mettere in scena le situazioni e filmarle. Speriamo che Cavie e Survivor, i prossimi Palahniuk che arriveranno sullo schermo, abbiano in sorte un regista migliore. L’unica scelta giusta sembra quella dei protagonisti: Sam Rockwell e Anjelica Huston nel ruolo di Victor Mancini e della madre Ida sono stralunati quanto basta e piuttosto convincenti. Ma siamo molto lontani da Fight Club, allo stesso tempo perfetta macchina filmica e coerente rilettura per immagini dello spirito di Palahniuk, e anche dalle pagine dell’autore, dentro le quali c’è molto più cinema che in questo film. Quello che era un pugno nello stomaco qui diventa una carezza, quelle storie che ci torturavano ora ci fanno il solletico. 

Da non vedere perché: Una grande storia viene appiattita e banalizzata. Per ritrovare lo spirito irriverente di Palahniuk, rivedetevi Fight Club. O leggete il libro. 

 

 












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